In questa ricerca di senso, Cappello stringe il nodo delle generazioni. “Ancora ti chiedo di stare”, dice il Poeta al padre che non c’è più. Un omaggio struggente e reso ancora più forte dalla condivisione della medesima condizione di figlio che è diventato padre (“Nel conflitto e nel maturo riabbraccio/Te ne sei andato”), nella consapevolezza di una diversità (“l’arabo volume del sentimento”, “l’intelligenza figlia di un piatto di fave”) che si scopre identità.
Una poesia per molti versi liminale, dunque, quella di Giuseppe Cappello, che sa trasfigurare il quotidiano, senza mai abbandonarlo, anzi, al contrario, traendone linfa di ispirazione universale, come nella poesia dedicata ai fidanzati morti nel terremoto dell’Aquila, densa di riferimenti colti (vedi il titolo stesso, “Il giaciglio di Harshad”, la citazione dannunziana del finale, “la favola bella/Che ieri l’illuse”), che tuttavia si originano sempre nella concretezza mai dimenticata del vissuto, “nel ritmo sussultorio della ninnananna”, quel benefico terremoto che tutti i genitori provocano ogni sera tra le loro braccia per far addormentare i figli.
La piccola Beatrice ci prende dunque per mano, come la Grande, e, nel suo crescere, ci conduce a (ri)scoprire le grandi verità nascoste nel nostro esistere, spesso irriflesso, facendocene intendere il senso profondo e, soprattutto, sentire la gioia.