Essa nasce dai tormenti giovanili che non hanno ancora trovato pace, risoluzione e affezione. Menotti si denuda per raggiungere la maturità, che ormai sta arrivando. Ha scritto molte raccolte di poesia, come in preda a una bulimia di versi. Una scrittura, la sua, che attraversa persone, cose e sentimenti, come una talpa che deve nutrirsi di un alimento diverso e rimarginante. Con la memoria torna a scavare, ancora una volta, nel passato, per tentare la “decantazione” di quelle ferite che pur guarite, hanno lasciato segni inconfutabili. Lerro coltiva una forma di ribellione non violenta ma turbante, che ora finalmente sta raggiungendo una forma di autoassoluzione a peccati comunque a lui non attribuibili, ma subiti. Una ricerca che si identifica nella necessità di un perdono che non riesce a trovare, anche perché non è un perdono a se stesso, e nemmeno da attribuire a qualcun altro. È la vita, con la sua complessità e quel tanto di mistero che si può intuire ma non spiegare, a dover essere perdonata. Il pensiero della notte che smaschera finzioni e ipocrisie non riesce a trovare pace, quiete, riferimenti legittimi per una rinascita. Ma è alla rinascita che aspira la sua poesia. Il percorso appare ancora lungo. Nel frattempo tutte le cose, tutte le persone, tutte le emozioni, che passano sotto la sua lente di analisi, diventano reperti per una futura e definitiva “decantazione” come riconciliazione con sé e il mondo. Anche l’amore è sotto osservazione, (“Sono straripante d’amore/ di canti di dolcezze di rancore./ Sotto le travolgenti carni/ il mio bollore”). Perfino Dio viene interrogato senza aspettare risposta (“Io credo che Dio ci abbia inventati/ per mostrare e condividere/ una sconfinata solitudine”). Ed è la stessa poesia – nel momento in cui l’autore testimonia di comporre nelle notti in cui non vorrebbe più comporne – che lo costringe a farla, a viverla. Egli, nella breve e intensa premessa, parla di questi testi come “figli sbandati, farneticanti, alcolizzati”, ma necessari. Come se fossero nati senza la volontà di generarli. Ma anche questa è ingannevole autoillusione. Menotti Lerro è poeta del disagio e della volontà di superarlo. E stranamente proprio da questa contraddizione è nata la sua migliore, finora, prova poetica. (Ottavio Rossani)
Propongo di leggere le seguenti tre poesie:
Sabato sera.
Fiume di fuoco nel corpo.
Le pareti iniziano a parlarmi, esco.
La giungla mi attrae e mi protegge.
Al confine delle bianche strisce
leoni in agguato.
Poi l’orango mi sorprende,
fuga, tunnel infernale.
Nei canali s’allungano anaconde,
puntuali alligatori sperano
in una nuova preda, tuffo risolutore,
vittima sacrificale.
‘Non io, che non vivo’, penso.
‘Non io quest’anno, questa notte…
che mi sento Dio.’
Parlo solo, sogghigno, torno serio.
Con l’ombrello benedico
i passanti: non si ribellano,
né mostrano paura.
Sangue di lucertola,
se occorre una pistola.
*
Gli sciacalli invadono le strade
in cerca di teneri batuffoli o di fangosi
leoni solitari pronti al sacrificio
dell’ultima battaglia.
Già roteanti spettri del crudo cielo
ne bramano i brandelli
che resterebbero a imputridire
sulle ossa infestando l’aria,
traforato vascello di guerra.
Il diavolo e l’inferno che tememmo
in vita s’avvampano ogni giorno
sulle battigie degli occhi che piano s’abituano
alle innumere tenebre e vi scorgono luce laddove
in verità brilla la notte, come nel bordello
di madame Laforgue, donna che naque uomo,
che tra le gambe ha impiccato l’empito corvo
con lo spago per farlo rinsecchire
e cadere al suolo.
Nudo, a un tavolo consunto, scrivo questo
marasma d’agosto, sfioro la pipa in disuso,
ripenso ai corpi dai contorni rimodellati
dall’instabilità della memoria,
traboccante travaglio che consola.
Alcuni gesti sono luci, altri spade.
Ci salverà forse il tremore estasiato d’una vergine
o il pianto immacolato d’un agnello ignaro
dell’orrido rituale?
Il formicaio dell’orto è un delirio obnubilato,
manna improvvisa dall’alto.
Che sia questa la patetica gioia
mostrata dagli uomini ai santi?
*
È notte.
Via Arzaga non sa darsi pace
per aver perso il giorno.
La prostituta pingue e vetusta
disserra l’ombrello, ammicca ai passanti,
vezzeggia randagi di pioggia.
È notte.
La città che ho dentro infiamma i lumi
per riguardarsi nelle pozzanghere
con la germogliante ombra accanto,
per dirsi che il viaggio
ha le vele ormai marce e
la plancia arrugginita.
Notte.
Mi allungo con la goccia perfetta
sulle labbra. Mi fa ridere e tremare
il soffitto che proietta il film iridescente
della mia vita.
È notte.
Via Arzaga non sa darsi pace
per aver perso il giorno.