Vi è chi, forse la maggioranza tra noi, è oramai convinta che il minor numero di figli debba imputarsi, in maniera pressoché totale, a ragioni puramente materiali quali lo scarso lavoro, i redditi non abbastanza alti e sicuri, l’inaccettabile pressione fiscale esercitata maggiormente, a parità di reddito, su coloro che devono ripartirlo su di un numeroso nucleo famigliare, ed infine, la quasi totale mancanza di sostegno sociale a coloro che decidono di formare una famiglia. Se noi considerassimo le condizioni materiali e sociali, nelle quali un tempo si mettevano al mondo i figli, compiendo ogni genere di sacrificio personale, dovremmo subito nutrire dei forti dubbi riguardo tali riduttive affermazioni.
Sarebbe opportuno considerare anche il ridotto costituirsi di famiglie basate sul matrimonio, ovvero, su di un legame stabile, assunto come impegno pubblico-sociale, e che tra gli elementi fondanti ha ancora quello di mettere al mondo dei figli; la consumata separazione dell’atto sessuale dalla riproduzione, la sempre più debole responsabilità individuale nei legami di coppia, fondati sul più mutevole, preso per sé, degli elementi umani: il sentimento; ed il fascino che esercita, tanto sui single quanto sulle coppie, una vita senza legami istituzionalizzati e senza la prospettiva dei figli.
Legarsi stabilmente, assumersi l’impegno d’un reciproco sostegno dettato non solo dallo slancio della passione, e generare dei figli è decisione che coinvolge l’intero orizzonte di senso d’una vita e, quindi, la visione esistenziale d’una coppia. Nella moderna società occidentale la ragione d’una vita, appagante in sé e per sé, sembra perseguibile, realizzabile qui e ora, a prescindere dalla presenza d’un solo partner e della prole.
Detto questo, è altresì vero che mai come in questi anni in Occidente si riscontri un tale slancio retorico verso la maternità/paternità. Come spiegare questo apparente paradosso? È vero che si riscontra un’attenzione spasmodica verso i figli tanto da parte dei genitori quanto della società, ma non per questo è meno vero che ai figli si preferisce una vita sempre più libera, ogni giorno un ruolo diverso e maggiormente stimolante, fino al rischio di anestetizzare gli stessi sensi per troppo moto. Più che il rigettare totalmente la prospettiva d’avere dei figli, opzione statisticamente in aumento, l’odierna società ricerca un compromesso, un equilibrio tra le aspirazioni individuali, volte a bere fino in fondo il ricco bicchiere della vita moderna e la maternità/paternità, ovvero, uno sguardo oltre il proprio Io in cerca non di oggetti e sensazioni che passano, ma d’un altro Io che ci spinga ad uscire dal mondo asfittico di noi stessi. Tale ricerca si concretizza nel “modello del figlio unico” da aversi in età avanzata. Come dire che la spinta a realizzare desideri e ambizioni che prescindono dai figli e dalla famiglia, in particolar modo trascorsi gli anni ruggenti della giovinezza, non sostiene necessariamente un’intera vita. E così l’età maggiormente adatta biologicamente alla riproduzione è la meno sfruttata, le gravidanze si fanno più complicate e l’infertilità/impotenza aumenta quando si vorrebbero dei figli.
Anche l’amore per i propri figli è divenuto così limitato, in una società i cui bambini si fanno rarefatti, è spesso così esclusivo che fatica a trasformarsi in amore verso il mondo dei bambini in genere e troppo spesso si colora d’egoismo. Un’attenzione sentimentale ed affettiva smaniosa, incentrata su quell’unico figlio da difendere e ricoprire di strumenti e possibilità materiali per affrontare il competitivo mare della vita. Troppi sono i figli che escono dal nido insicuri, senza alcun senso di responsabilità, ricchi di nozioni ed emozioni, nel migliore dei casi, ma poveri dell’unico tesoro essenziale alla vita, un intelletto lucido ed una volontà forte.
In quest’orizzonte si comprende bene l’importanza dell’ultimo lavoro del dott. Giuseppe Brienza, non un’astratta enunciazione di principi, ma una testimonianza raccolta ed offerta. Un agile e prezioso libretto questo Filosofia della vita nei servi di Dio Licia e Settimio Manelli [Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (Novara) 2017, pp. 70, € 10] che, senza pretendere d’esaurire l’argomento, vuole indicare una via, quella realizzata dai Servi di Dio Licia (1907-2004) e Settimio Manelli (1886-1978), esempio di virtù umane e cristiane.
La Famiglia Manelli, appartenente alla classe media, vide, difatti, la nascita di ben 21 figli, 45 nipoti e 84 pronipoti! Fin dal fidanzamento i Manelli sono un segno di integrale sodalizio, non l’esperimento d’uso reciproco dei più bassi istinti e d’un sentimentalismo cieco e mutevole, ma preparazione ad un’unione piena tra tutto un uomo e tutta una donna: «Un fidanzamento breve e intenso, casto e nobile, amabile ed elevato. Un fidanzamento puro e santo, bello come la “luce dell’aurora in cammino” […] che porta il sole del Matrimonio sacramento» (p. 17).
Un’unione piena, dunque, preparata con saggezza ed aperta alle innumerevoli ricchezze che la vita coniugale-parentale è in grado di offrirci, se affrontata con gioioso sacrificio.