Secondo gli antichi Egizi l'universo è sorto dalla masturbazione di un dio: la poesia assomiglia a questa gestazione anomala per cui la solitudine della parola accesa di incanti immaginari diventa fonte di piacere, procreazione e propagazione di un verbo autorevole in cui si flette, attraverso i rivoli infiniti dei versi, il brivido dell'emozione. I libri andrebbero scritti sulle pareti di piramidi indistruttibili piuttosto che su fogli che il vento sparpaglia o il fuoco annienta. Gregor Ferretti (a fianco nella foto di Daniele Ferroni) è un giovane poeta ravennate che come un Edipo davanti alla Sfinge mi dice: "La mia vita è un problema di parole".
Il suo ultimo libro è Alfabeto della terra e altri canti (Giuliano Ladolfi Editore), raccolta che segue "Conflitti postumi" (Mobydick), testo uscito quattro anni fa. "Questo è un libro più maturo, un canto di rivolta civile, un'esortazione a riprenderci ciò che è nostro", mi avverte Ferretti, ma naturalmente io non mi fido dei poeti, la loro parola ornata spesso tradisce un esibizionismo nervoso. Ferretti però è più che un poeta, è un artista totale, un manipolatore delle potenzialità dei suoni e dei significati, un giovane uomo che si sente a suo agio nell'esprimersi in versi, in musica, tramite le tessere dell'arte musiva o i visionari frammenti cinematografici: quante frecce inserite nella sua balestra, quanti talenti pronti a irradiarsi nello spazio come un dono di spietata luce o tenebrosa sapienza...
A settembre uscirà, tra l'altro, il suo album d'esordio, La divisione aritmetica, dove le sue doti canore e compositive risalteranno come già ha dimostrato nel cliccatissimo videoclip su YouTube Portuale. Stavolta, nell'ultima e acuminata raccolta poetica, la sua denuncia si fa tossica, descrivendo una città in cui persino l'amore diventa un dardo avvelenato, dentro un vuoto crescente in cui a resistere è solo l'energia pura e intatta dell'amante che non può smettere di amare a dispetto di ogni obiezione.
L'alienazione dell'uomo moderno si mescola a un bestiario felliniano di acrobati squilibrati o pagliacci allucinati, donne dagli occhi di tigre o dal guscio di testuggine: è una ricognizione delle miserie dell'uomo contemporaneo guidata dalla possibilità intravista o immaginata di un mondo diverso. Spiccano numerose metafore marinaresche tratte dal lavoro portuale, così come dal regno industriale che ingrigisce tra le pinete e il mare, tra l'antica grandezza bizantina e le nebbiose stagioni che ne sommergono i contorni: la visione evocata con lacerante intensità nel libro di Ferretti è disorientante, confonde l'alto e il basso, tracima da ogni parte per farsi canto esterrefatto di una notte che non può sommergere tutto, come sottolinea in un turbinoso giro di versi che costituiscono un sentito omaggio a uno dei più grandi poeti della nostra terra, Dino Campana.
E' un movimento interdetto, un muscolo che si ferma a meditare prima di scattare verso l'abisso: la poesia di Ferretti richiama un mondo sospeso o in caduta libera e l'autore pare un trapezista che lavora ad alta quota senza reti di sicurezza sopra una Terra che si allontana a vertiginosa velocità: chi si eleva e chi precipita in questo caos multidimensionale in cui perfino le tecnologie contribuiscono a stereotipare i rapporti, a vanificarli e privarli del loro senso profondo di scambio corporeo, mistica comunanza e umano abbraccio? Chiudendo questo articolo con quella sapienza egizia che l'ha aperto, vorrei ricordare l'arcana cerimonia della psicostasia, la pesatura del cuore: quanto pesa l'anima d'un uomo, il canto che un poeta consegna con disperato amore ai posteri? La feroce e precoce eiaculazione dei versi liberi e sfrenati di Ferretti trafigge per sempre il divenire, intrecciando il banale squallore del quotidiano di un'epoca distratta alle epifanie senza tempo dell'amore.
Emanuele
Palli