In forza di ciò, della propria γλῶσσα – e, per sineddoche, del proprio canto – l’autrice propone l’atto logorante; invero il gesto poetico conserva uno stato di coscienza prolungativa di un orrore e di un raccapriccio abituale; i quali concorrono nel fondare una campitura esistenziale in cui la quotidianità si contestualizza come catabasi nell’atropo, consistente a sua volta nel tartaro diabolico della res e del φαινόμενον.
Non meno debitrice alla cultura classica tradizionalmente condivisa, il dire della poetessa instaura, caricandolo del πάθος tragico e senza nugae insignificanti a cui dar peso, un πάθειμάθοςche, avvalendosi della figurazione mitologica e simbolica anche nei soggetti che introduce nella scrittura, diviene il vero e proprio strumento di misura dell’esperibilità – mai caducandone, tuttavia, la valenza pragmatica, da intendersi come spossessamento e disappartenenza cosmica (Carlo Ragliani).
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