Attraverso tredici brevi poesie il catanese Giudice ci invita a riflettere sul senso di spaesamento, straniamento che coglie sempre chi si pone domande sull’esistere, sottraendo ogni elemento superfluo fino alla scarnificazione assoluta: è ciò che resta ciò che conta! E potrebbe trattarsi anche di un’interrogativa indiretta alla quale potrebbero rispondere i quattro versi di Valerio Magrelli posti in esergo («Questo per dire quanto / resta di qua della pagina / e bussa e non può entrare, / e non deve»), tratti da una poesia di Ora serrata retinae che era già una dichiarazione di poetica in quel folgorante attacco («Dieci poesie scritte in un mese / non è molto anche se questa / sarebbe l’undicesima. / Neanche i temi poi sono diversi / anzi c’è un solo tema / ed ha per tema il tema, come adesso»), e che ora viene assunta in toto da Giudice (se è lecito da parte mia dare questo valore a un esergo).
Detta così ogni cosa sembra ovvia, banale e soprattutto sa di già scritto e riscritto. Ma cos’è la scrittura se non riflessione e meditazione su un pensiero formatosi prima e che si tenta di fermare sulla carta, nella piena consapevolezza del fallimento («Il foglio che non ho saputo scrivere è stato usato / per appuntare verdure e numeri di telefono»)?
E allora si ricercano i mezzi per tenere a freno il rischio, arginare la materia: lo spazio e il tempo. Ridurre all’essenziale il ricorso alla parola senza correre il pericolo di mimare la lezione di Ungaretti (lontana anni luce), ma semmai distillando quella più luminosa di Luzi, ridotta all’osso.
Fabio Michieli
Poetarum Silva

