Se almeno l'amicizia potesse creare un antidoto a questo senso di povertà i giorni sarebbero diversi, ma l'amicizia stessa, il dialogo con l'interlocutore a noi ignoto, stremandosi nello spazio abissale che separa la campagna dalla città e scontrandosi con gli andirivieni dell'altro, con le sue reticenze, forse le sue menzogne, non arriva mai a liberare quella "parola a tutto tondo" di cui il poeta è affamato ma che pare impossibile pronunciare nel tempo dei sentimenti in fuga.
Nella seconda parte della raccolta il difficile dialogo insiste ma spostando le sue traiettorie nel vivo della "presenza" storica, in quel "mondo nuovo", cittadino, che è traffico soffocante, teatro di facce "di cera", luogo di mode passeggere, sesso intercambiabile, ritmo rap, "vita digitale", cumulo di rifiuti, falsità dominata da un "alito di morte". Proprio qui, nella nuova Babele, mentre gli uomini urlano negli stadi e la morte "passa in rassegna i templi del denaro", mentre l'identità dell'Occidente e di ciascuno di noi vacilla, il poeta sente l'urgenza dolorosa di testimoniare cosa significhi essere padre.
I suoi due figli, Silvia e Federico, cercano un loro percorso di verità nel carnevale dell'inautentico: spesso sembrano aver perso la speranza e il padre non riesce a comunicare con loro, come se "un fosso di tremila / anni" lo separasse dalle loro esperienze. Eppure tra i passi e i gesti dei due giovani qualcosa di miracoloso, a tratti, rinasce: l'ipotesi di un cammino teso all'infinito, il desiderio, forse inconsapevole, di una vita capace di "trasformare la materia in luce".
Paolo Lagazzi

