(“La traduzione è un bacio. / E’ avere nella bocca / Non una, ma due lingue / Contemporaneamente”)
e insieme superbamente presuntuosa, perché pretende di interpretare stili e sentimenti che non le appartengono
(“Tradurre per avere un solo punto / Da cui tenere tutto, / Suddiviso e congiunto. / Ricostruire l’ordine distrutto”).
Gardini ha scritto un centinaio di poesie (Tradurre è un bacio, edito da Giuliano Ladolfi) nell’arco di un mese, all’inizio del 2015, pressato dall’esigenza di comporre un omaggio in versi, e in qualche modo anche un pamphlet saggistico, in onore e difesa non solo della traduzione, ma anche del traduttore. Nella nota finale così argomenta la sua arringa poetica:
Tradurre si fa, è possibile, e va capito nella sua complessità umana, artistica e civile, e nella sua bellezza. Non ci sono, per me, schemi, griglie, ipotesi, ma solo prassi e stupori, e una molteplicità di punti di vista.
Si traduce per amore, per volontà di conoscenza, con meraviglia nei riguardi della bellezza:
“Io non ho lingua, io sto all’erta, / A bocca aperta, / Come i bambini quando nevica / O come il pesce”;“Non c’è, per quanto scaltra, / Parola sufficiente. / Può vincere sul niente / Se vive per un’altra”.
Si traduce per riempire i propri vuoti, per colmare le mancanze, per arricchirsi emotivamente:
“Proprio non so la sete di cui vive / Questo mio cuore vuoto e, come il bruco / Che ha già finito il filo, ecco, traduco”.
E Nicola Gardini ha tradotto tanto, già dall’adolescenza, scrittori antichi e contemporanei, greci-latini-tedeschi-francesi e soprattutto anglosassoni, incontrando i suoi poeti nei libri e di persona, mettendosi in competizione con altri traduttori, rivendicando orgogliosamente la legittimità artistica dell’interpretazione soggettiva, difendendo l’artigianalità raffinata del suo lavoro dai boriosi criticismi accademici. Ma anche proponendo un aspetto ludico e leggero della traduzione (come nel divertissement quasi scialojano “L’uomo”, in cui si interroga sulla capacità traduttiva degli animali). Difendendo l’uso della tanto bistrattata rima (“La rima innanzitutto. / Dovunque e purchessia, / Non solo in poesia”). E contestando il luogo comune dell’isolamento del traduttore:
“La gente crede che tradurre / Sia un lavoro solitario:/ Tu e il dizionario. / Ma se è il massimo della compagnia! / Uno che ti insegna a produrre, / Uno che ti fa fare una poesia".
Insomma, questi versi di Gardini recitano una dichiarazione d’amore a un mestiere ingrato e appagante, duro e generoso, ingordo e delicato, come risulta evidente da questo ultimo esempio:
“Per certi il paradiso è luce, / Per altri leggere da mane a sera.../ Per me la beatitudine vera / E’ un posto dove si traduce”.

