Quale, dunque, il rapporto tra il festeggiare e la totalità della persona umana? Quali sono gli elementi che ci permettono di distinguere una festa autentica da una festa inautentica, artificiale? Se da un punto di vista filosoficamente «rigoroso» è possibile sintetizzare il nucleo della questione posta nella domanda «qual è l’es- senza della festa?», l’autore riconfigura opportunamente la questione, operando una torsione del quesito, «dirottando» l’interrogativo posto dal locus tradizionale, «classico» del tì estì, ad una formulazione più antropologicamente centrata: perché noi uomini facciamo festa? Quale intima esigenza spinge gli esseri umani di ogni luogo e di ogni tempo a festeggiare?
Nei quattro capitoli di cui si compone il lavoro di Russo possiamo indicare altrettanti snodi fondamentali che costituiscono il baricentro entro il quale l’A. svi- luppa una riflessione attenta a non trascurare né il livello della storia né il livello, altrettanto decisivo, meta-storico, metafisico, presente e operativo in filigrana entro i «sentieri interrotti» del tragitto antropologico di sapiens. Sebbene, infatti, il pro- cedere dell’A. si sviluppi entro i sicuri margini di un discorso genuinamente filoso- fico, ciò non implica il rifiuto di interrogarsi su quanto, a ben vedere, è suggerito dal fondo stesso della questione indagata. Come emerge soprattutto nel capitolo con- clusivo, sul quale dovremo tornare con maggiore attenzione, Russo evidenzia come nel dinamismo profondo della festa si giochi una partita che trascende e supera la pura immanenza, la mera orizzontalità delle relazioni umane, e ha direttamente a che fare «con l’origine dell’uomo, con le verità fondamentali della sua esistenza, con ciò che struttura la sua vita e la trascende» (p. 66).
Il festeggiare, dunque, come locus religioso, ovvero come attività umana che – al pari di attività altrettanto significative, che strutturano e qualificano il suo esserci, come amare, costruire, abitare, lavorare...– testimonia e individua in sapiens una teleologia verticalizzante, un desiderio di trascendere i limiti spazio-temporali ai quali è vincolato, di riconfigurare la quotidianità della lineare diacronia sul modello di un kairos eterno, di un Illud Tempus che inquieta e de-struttura, collocandolo entro coordinate verticali, il suo presente storico. Rottura/eccezione nell’ordinaria concatenazione degli eventi, la festa è, cionondimeno, sempre riferita alla vita quo- tidiana, e la sua straordinaria collocazione entro i confini dell’«oggi» segnala una tensione che, come afferma l’Aquinate – al quale l’A. volentieri si riferisce –, inve- ste il vissuto di un essente che esiste all’orizzonte tra l’eternità e il tempo.
Nel primo capitolo, il tema affrontato è quello della festa, intesa come legame con l’origine, culto (si veda la triplice valenza dell’etimo, discussa da Russo in La persona umana. Questioni di antropologia filosofica, Armando, Roma 2000), tessuto, solco, bagaglio significativo, compreso come fondamento, come radice dell’identità individuale. Ogni storia personale è, infatti, innestata entro una tra- ma più complessa di relazioni, rapporti, nuclei di significato comprensivi: in una parola, in una tradizione. L’A. riflette dunque sulla funzione, e sul ruolo giocato dalla celebrazione festiva nel processo di configurazione, riscoperta e accettazio- ne (o rifiuto) dell’eredità culturale, definita come il luogo entro cui si innesta ed è ospitato l’«io» di ogni persona. Descritto il processo di assimilazione della cultura come un dinamismo uni-totale nel quale entrano in gioco tutte le dimensioni dell’u- mano, a partire dal livello più elementare della percezione sensoriale, l’A. richiama opportunamente l’attenzione su come anche nella celebrazione festiva sia operati- va simile dinamica ‘umanizzante’, in quanto in essa confluisce e si sintetizza una modalità precisa di ‘abitare il mondo’; ovvero di affrontare l’esistenza, rapportarsi con l’altro, affermare certi valori fondanti.
Nella celebrazione della festa, ogni cultura umana esprime una concezione del vivere e del morire, del significato degli eventi e dello scorrere del tempo: in altre parole, nel rito festivo è significato e celebrato il senso complessivo che un gruppo sociale riconosce/attribuisce al suo essere nel mondo. Nella sua espressione positi- va, cioè nella sua equilibrata, virtuosa relazione tra un passato pieno di senso – ma non immutabile o ipostatizzato –, e la sua apertura al futuro e a possibili svilup- pi inediti, la festa svolge così una funzione essenziale, rafforzando e rigenerando la coscienza comunitaria della collettività che la celebra. Citando un testo di Levi Della Torre cui presta particolare attenzione, l’A. indica nel comune riferimento degli ebrei al Sabato come festa solenne un esempio positivo di come la festa gio- chi un ruolo cruciale, di ri-attivazione dell’identità collettiva (memoria dell’origi- ne, sanzione del presente, apertura al domani). È la custodia di una genealogia, di una storia che riconosce nell’osservanza della festa un atto di risposta alla relazio- ne positiva che Dio instaura con il suo popolo che qui si produce. L’A. non sottace, tuttavia, la possibilità che simile dinamica possa pervertirsi, capovolgendosi in strategia eterodiretta dal potere politico o ecclesiastico per autocelebrarsi, raffor
zando così la propria egemonia. Il potere non è mai – non può mai essere – contrad- dittorio, e nella costante ricerca di consenso, il controllo della celebrazione festiva assume una funzione strategica decisiva. In un certo senso, e per via negationis, simile strumentalizzazione – si pensi al panem et circensem dei romani, alla festa della Dea Ragione in Francia o alle parate militari nazionalsocialiste e sovietiche – costituisce una conferma ulteriore di quanto la dinamica festiva, sia essa o meno asservita a un progetto politico o economico che ne svilisce e umilia la fattura ori- ginaria, si ponga come cartina di tornasole, «indicatore antropologico» privilegiato per tastare il polso, indagare i loci essenziali di una determinata società.
Nel secondo capitolo l’A. evidenzia un ulteriore elemento costitutivo della dinamica festiva: la relazionalità. L’aspetto della condivisione, la gioia di un tem- po vissuto «per altro e per altri» – con le parole di A. Fabris –, è una nota essenziale di quest’esperienza: nessuno può festeggiare da solo, ogni festa è sempre il luogo di incontro fisico tra almeno due persone che partecipano, entro uno spazio-tempo (stra)ordinario, al senso di un accadere significativo, che accomuna i partecipanti e li coinvolge entro un evento che ne vincola i destini, contrassegnando una relazione che è sempre, come si accennava poc’anzi, reciprocità condivisa. Un altro aspetto sottolineato, correlato al precedente, è relativo all’esperienza di libertà (positiva) che la celebrazione della festa è in grado di rafforzare e difendere; nell’odierna congiuntura storico-epocale, segnata dal consumismo e da un’economia che spesso assume i tratti di un moloch disumanizzante, la difesa del dies festivus, animato da una logica altra rispetto ai meccanismi spesso asfissianti della routine quoti- diana, si pone come imprescindibile necessità, esigenza di coltivare e custodire uno spazio umano, possibilità di riappropriarsi di sé, di riprendere coscienza di un tutt’altro dominio rispetto a quello imposto da ciò che sempre minaccia di sot- trarre l’uomo all’uomo. Decisivo, ci sembra, quest’ultimo passaggio. L’A. infatti, segnalando come nella civiltà tecnologica sapiens sia sempre esposto al pericolo di trasformarsi nel semplice ingranaggio di un sistema impersonale, e indicando lo «spazio di libertà» dischiuso dalla logica della festa, dimostra di essere perfet- tamente consapevole che quest’ultima, al contrario di quanto ritenuto da studiosi meno accorti, sia qualcosa di estremamente serio, tanto che, come emerge in diver- si passaggi del testo, nella più o meno consapevole adesione al tempo della festa «ne va» della stessa humanitas del soggetto. Tuttavia, non va sottaciuto, e neanche in questo caso l’A. si abbandona a simili ingenuità, il rischio che il tempo festivo possa trasformarsi da «oasi di libertà» al suo residuo fantasmatico, prodotto della strumentalizzazione consumistica, del conto interessato, avidamente accurato di una logica precettata a uso e consumo del denaro contante.
Nel terzo capitolo del testo, intitolato Lavoro, tempo libero e “ozio”, Russo affronta il tema cruciale del rapporto tra lavoro e festa, poggiandosi sulle riflessioni, fondamentali in questo senso, di J. Pieper, che in Sintonia con il mondo. Una teo- ria sulla festa, afferma giustamente che le due realtà sono inevitabilmente correlate. Simile rapporto è illuminante, e la più o meno fondata consistenza dell’uno evidenzia lo «stato di salute» dell’altra. Solo un tempo del lavoro vissuto come luogo del senso può introdurre l’uomo a un tempo festivo altrettanto sensato. Qui uno degli snodi teoretici a nostro avviso più interessanti del breve saggio. L’A. infatti ritiene assolu- tamente necessario non scindere la riflessione sulla festa e sulla sua eventuale «cri
si» dall’altrettanto decisiva crisi del mondo del lavoro (tema, peraltro, già affrontato dall’autore in collaborazione con A. Vaccaro in Sviluppo umano integrale e organiz- zazioni lavorative, Cantagalli, Siena 2013). Solo un lavoro quotidiano sperimentato come luogo della soddisfazione, generata dalla coscienza dell’impegno, del valore e della motivazione profonda, si rivela in grado di predisporre a un vero godimento del tempo della festa. Questa relazione virtuosa, valutata anche in riferimento a una prospettiva teologica, segnala un equilibrio mai raggiunto una volta per tutte, e parti- colarmente minacciato in un’epoca, la nostra, nella quale spesso l’ambito lavorativo è dominato da una concezione carrieristica e attivistica: il successo dell’intrapresa, dell’attività professionale, diventa l’idolo cui sacrificare qualsiasi altro bene. E giu- stamente l’A. afferma che, entro simili coordinate, il tempo festivo non ha più alcuna ragion d’essere, trasformandosi in una semplice parentesi «tollerata solo per ritornare al più presto alle incombenze abituali mai dimenticate» (p. 42). Con singolare acu- me psicologico l’autore tratteggia una sintetica ma puntuale analisi fenomenologica, indicando le diverse perversioni, i diversi possibili capovolgimenti del complesso equilibrio tra festa e lavoro; con la stessa attenzione vengono delineate le differen- ze tra gioco e festa – l’A. richiama opportunamente il celebre classico di Huizinga, Homo Ludens, criticandone alcune conclusioni.
Nel quarto e ultimo capitolo si affronta un ulteriore snodo cruciale della rifles- sione sulla festa, relativo alla sua funzione di speranza, trascendenza, perfezione. Nella festa, rottura e interruzione del tempo ordinario, è possibile esperire la pie- nezza di un’«azione trasfigurante, poiché permette di ritrovare la valenza positiva delle attività ordinarie e ricollega il tempo al suo senso. Così il Sabato ebraico e la domenica cristiana aprono una prospettiva di rigenerazione del presente che non è solo rinviata al futuro ma è operante già adesso» (p. 61).
Ma iscritta nel nucleo stesso dell’esistenza umana, la festa è decisiva nel proces- so di umanizzazione del soggetto; una delle dimensioni antropologiche più decisive che la celebrazione della festa è in grado di ri-centrare ed educare è relativa all’e- sperienza della temporalità. Essa permette di vivere un giusto equilibrio tra presente storico, passato e futuro. Ricordare, ringraziare, prendere coscienza di una chiamata che sposta oltre l’affanno quotidiano il suo punto di fuga. Funzione di speranza, la festa autentica non si pone mai come mera celebrazione e ri-attualizzazione di un evento significativo, ormai relegato in un passato morto e sepolto, ma porta sempre con sé uno ‘squilibrio’ rivolto verso mete ulteriori. Poggiato sulle solide fondamenta di un’antropologia che riconosce nell’anelito di felicità e pienezza un tratto distintivo della costituzione ontologica di homo sapiens, Russo conclude il suo breve lavoro indicando nell’apertura alla trascendenza, alla tensione verso una pienezza presagita e desiderata, ma mai posseduta integralmente, il tratto più qualificante del festeg- giare. Riprendendo, ancora una volta, alcune riflessioni decisive di J. Pieper, l’A. fa notare che, in fondo, nella celebrazione della festa non si evidenzia altro che una pre- via e implicita accettazione, da parte dell’uomo, del mondo tout court: approvazione che si dinamizza nell’atto stesso con il quale si festeggia qualcosa, non fosse altro che un evento, a ben vedere, in sé poco significativo. La più o meno grande importanza dell’evento festeggiato passa, in certo senso, in secondo piano, giacchè festeggiando il singolo evento non si fa che festeggiare qualcosa di ancor più decisivo. Festeggiare il compleanno di qualcuno significa gioire del fatto che questo qualcuno c’è, che la sua vita ha un senso, un significato ben più grande, irriducibile a ciò che si riesce a ‘racchiudere’ nel breve spazio di una festa di compleanno.
Offrendo una ricognizione generale di alcuni tratti costitutivi dell’esperienza della festa – dichiarando a più riprese di non avanzare alcuna pretesa di esausti- vità –, l’A. ha contribuito, ad avviso di chi scrive, a richiamare l’attenzione su un tema estremamente attuale; a chiunque volesse indagare in questa direzione, il saggio di Francesco Russo offre spunti notevoli, in grado di incoraggiare ulteriori sforzi di riflessione.
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