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Robert Brasillach-Poèmes de Fresnes su ConquisteDelLavoro

LogoConquisteIntellettuale militante, critico, studioso di cinema e poeta (recentemente l’editore Giuliano Ladolfi di Borgomanero ha pubblicato il suo “Poèmes de Fresnes” scritto in carcere prima della fucilazione), Robert Brasillach si costituì prigioniero nel 1944 per liberare i suoi familiari e la madre che erano stati brutalmente catturati come ostaggi.

Fu accusato di filofascismo, antisemitismo e collaborazionismo in uno dei grandi processi del dopoguerra, il cui contenuto simbolico andò ben al di là del fatto puramente giuridico e morale.

Nella condanna a morte, nella negazione della grazia da parte del generale De Gaulle, nel rifiuto degli intellettuali francesi di sottoscriverla (con poche eccezioni, tra cui Camus), nelle proteste con cui tanti fascisti reagirono a quella che ritenevano una sentenza ingiusta e soprattutto annunciata e, infine, nell’esecuzione capitale celebrata al forte di Montrouge il 6 febbraio del 1945, si svolse un rito collettivo dai molti significati.

Regolamento di conti con il passato recente del proprio paese, ipoteca ideologica sul futuro prossimo, spettacolo esemplare e pedagogico inscenato per le masse: questo, e molto altro, fu il processo a Brasillach, il quale si difese appellandosi agli ideali vitalistici e giovanilistici di una generazione, scomodando la tradizione antidemocratica francese, da De Maistre a Maurras, contestualizzando le sue posizioni scellerate sulla base di una realpolitik patriottica, ammettendo anche qualche colpa ma non esitando a passare all’attacco quando si tratta di far emergere una sorta di sua verità, alla quale tiene più della stessa innocenza, la verità dei fatti o della storia, come dice. Un’autodifesa, che senza chiedere indulgenza, scivola anzi in un vibrante J’accuse.

Tra giudizi a volte inaccettabili (“non sono sempre stato antisemita ... ma un ministero composto da 37 membri ebrei … è tanto”) e talaltra discutibili (“la collaborazione aveva come conditio sine qua non la futura indipendenza della Francia”), Brasillach fa alcune scomode considerazioni sul conto dei vincitori.

Ad esempio: “Gli Stati Uniti, dopo una violenta campagna contro Hitler, non sono scesi in guerra nel 1939... Sono entrati in guerra solo nel 1941 dopo l’attacco al Giappone... gli americani pensavano solo alla loro guerra”; “i massacri dei partigiani mi sono sempre sembrati qualcosa di rivoltante, ma devo anche convenire, con la storia, che non sono appannaggio di nessun popolo... gli inglesi hanno fatto la stessa cosa con i boeri. I comunisti hanno raccolto dei documenti incredibili e inesauribili sui procedimenti adottati dalla Francia in Indocina ... villaggi trucidati, bambini massacrati, torture sessuali con l’acqua o l’elettricità”; “tutti i governi riconoscevano il governo del

maresciallo Petain, compreso il Vaticano, gli Stati Uniti, le dominazioni inglesi. Per non parlare dei soviet ... Come non considerare questo governo legittimo?”; “Non devo certo dirvi che i giornali della Resistenza ... hanno violentemente protestato contro i bombardamenti selvaggi di Nantes. Tutto questo non ispira un grande amore verso gli anglosassoni”.

Le gravi colpe di Brasillach, sintetizzate nell’imputazione di “intelligenza con il nemico”, cioè con la Germania nazista, non escono minimamente indebolite da queste considerazioni. Certo è, però, che la sua autodifesa asciutta e priva di retorica rappresenta uno di quei documenti controversi e dolorosi su cui non solo vinti ma anche i vincitori dovrebbero lungamente interrogarsi.

 

Stefano Cazzato

ConquisteDelLavoro


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