Prima versione italiana assoluta della raccolta pubblicata da Marina Cvetaeva diciottenne a Mosca nei 1910, Album serale costituisce il debutto poetico dell'autrice, ora proposto da Giuliano LadoIfi editore nella sensibile, accurata traduzione di Paola Ferretti (pp.278, € 20,00, testo russo a fronte): è una uscita preziosa anche e soprattutto perché consente al lettore di inoltrarsi in quel territorio se non dichiaratamente larvale, ancora «tutt'altro che istituito, sbozzato tra esitazioni e quesiti, perplessità e’ recriminazioni» (come scrive la stessa traduttrice nella sua prefazione) dal quale prenderà forma la voce irripetibile, eppure riconoscibilissima della poetessa «matura».
Se infatti la pubblicazione dei primi taccuini di appunti datati 1919-1921, curata per Voland da Pina Napolitano, ha meritoriamente spezzato il silenzio editoriale calato su Marina Cvetaeva dopo la Fedra resa da Marilena Lea per Pacini nel 2011 e le Notti fiorentine riproposte sempre da Voland lo stesso anno nella traduzione di Serena Vitale, d’altro canto a emergere da quelle pagine sofferte è una Cvetaeva anzitempo e irrimediabilmente «definitiva», passata al vaglio di due rivoluzioni e di innumerevoli prove esistenziali: la disintegrazione del coté alto borghese della propria infanzia, la separazione forzata dal marito Sergej Efion, ufficiale filozarista, e la morte della secondogenita Irina.
In Album serale tutto poteva ancora accadere e, se da una parte appare innegabile l'osservazione di Ferretti secondo cui Cvetaeva qui «sembra voler provare l'ebbrezza di toccare fin dall'inizio le note più alte cui approderà nella poesia matura, di saggiare la consistenza di alcune propensioni tematiche che si faranno predilezioni durature», al tempo stesso sono presenti motivi altrettanto originali che non avranno seguito nell'opera a venire. Innanzitutto, quella misticadell'infanzia come età profetica che trova espressione in liriche quali A Serezo o In memoria di Nina Dzavacha, dove il genere classico dell'epicedio in morte di un bambino si risolve non tanto nel compianto di una scomparsa prematura, quanto nella constatazione atterrita di quanto sia rozzo e noioso il mondo adulto, e a che punto, funesta siano le sue intromissioni nell'orizzonte magico della fanciullezza.
C'e qui espresso per la prima volta il nucleo originario delle opposizioni su cui la Cvetaeva costruirà il proprio universo poetico e concettuale: da una parte la, terra con tutto l'incanto e la fragilità del sensibile, cristallizzato nelle determinazioni irreversibili della materia; dall'altra frustratezza,l'incorporeità di un aldilà tutto spirituale in cui ogni incarnazione particolare non può che dissolversi e naufragare. Ma se nell'opera matura si farà sempre più imperiosa la tentazione di oltrepassare la soglia della vita, di spezzare ogni vincolo terrestre in una vertiginosa, irruente autocombustione, in Album serale l'intensificazione della propria apertura nei confronti della realtà: «Potrà ridire il verso ancora acerbo/ la gioia di stare al mondo e quei segreti?».
Altrove balena già la figura totemica dell'Amazzone, ma solo per essere soppesata con spavalderia e messa da parte: «Amo le donne che non spaurano in battaglia,/ capaci di impugnare e spada e lancia,/ ma lo so: solo nella schiavitù della culla / starà la mia ordinaria – femminile gioia», Una singolare, quasi incantata terrestrità emerge dunque da questi versi avvertiti già dall'autrice come provvisori, dove le geometrie amorose, per quanto complesse, conservano ancora una loro frivole leggerezza e i ripetuti soggiorni all'estero con i genitori fanno da sfondo tanto alla nostalgia per l'amatissima Mosca, quanto alla formazione di una personalità unica e irrequieta. Una sorta di Cvetaeva prima della Cvetaeva, contrappunto ideale alle movenze più cupe dei Taccuini.
Valentina Parisi
Il Manifesto

