Ancora una volta meraviglia la capacità di Angelo Lacchini di fondere registri, toni, moduli stilistici di diversa matrice e qualità (senza mai scendere, comunque, sotto il livello di una indiscutibile dignità letteraria). Ancora una volta si riscontra l’armonico compenetrarsi tra il metafisico e l’immanente, lo svariare tra una fantasiosa esegesi evangelica e i frequenti agganci a un’ordinaria quotidianità, l’alternarsi e l’incrociarsi tra strutture sintattiche di illustre ascendenza latinistica o vetero-italiana e sobrie cadenze colloquiali, lo sfavillare di reminiscenze neotestamentarie e patristiche incastonate in piane sequenze meditative o in brucianti accensioni contemplative.

E non si può fare a meno di ammirare l’impiego per così dire anti-retorico di un’erudizione come tenuta a freno, temperata, dosata, appena lasciata trapelare qua e là senza alcun compiacimento narcisistico. Risulta evidente, infatti, che l’unico intendimento del poeta è quello di offrire alla Vergine l’amoroso tributo di tante intelligenze che a Lei si sono devotamente inchinate, donandole perle del loro sapere, del loro talento.

(dalla Prefazione di Marco Beck)

Un pane, due sandali al collo appesi

e qualche piccola moneta:

carità mi chiama, cugina Elisabetta.

La tua maternità io so da Gabriele

divina grazia che si dona;

la mia alle fibre del tuo seno si riannoda:

Giovanni è tabernacolo di Dio,

la tenda in cui posa l’arca d’un patto nuovo

nella seconda genesi del mondo.

Ma se quell’arcangelico chiarore che m’invase

illusa abbacinazione o mistica visione fosse?

Se le parole tradotte a mente, quel mio sì

a labbra chiuse

inconcreta eco di preghiera

o riflesso della mia quotidiana

sottomissione a Dio?

Dal giorno di quella luce vivo in uno stranito senso

di me stessa, come d’attesa d’altra vita.

Recensioni:

Recensione su Il Caffè, Marzo 2015