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È una poesia del tempo e degli sciami quella che Mario De Santis scrive, testo dopo testo, frammenti che paiono aggregarsi, pur nella loro disseminata dispersione, in un insieme: la figura che si forma è quella di un’idea di Storia e al tempo stesso il ritratto di una forma di interiorità. Il superamento della lirica e della questione della soggettività, riportano però di fronte, la nuda esistenza di un io, la necessità di una pronuncia e le cose del mondo. Per De Santis la poesia tenta comunque di definire una condizione di possibilità di conoscere il nostro tempo dentro destini generali. Essere presente di un io che si fa o noi o nessuno, collocato in un flusso di materia, a cui De Santis riferisce continuamente: con paesaggi, con dettagli e nomi, una geografia storica di spettri e conflitti, che allude anche ad una mappa della memoria degli ultimi venti anni. Il perno sono le domande sul senso dell’esistere in questo paesaggio di umanità e fantasmi, di vivi e morti. Avere coscienza della realtà brutale e muta come quella attorno a noi, è possibile? Anche se non siamo che una parte di questa materia? Domande e scommesse, uno sguardo che sopravvive ai bagliori di un disastro interiore e esteriore. Di chi è lo sguardo? Come la poesia sopravvive al suo silenzio, alla sparizione dal mondo, di chi è lo sguardo che si ostina in questa nostra veglia onirica, allucinata, a domandare: cosa sono, quando sono cosa?
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GIULIANO LADOLFI EDITORE s.r.l.
Corso Roma 168
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