Lettura di: Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, Combray: «E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito [...] la vecchia casa grigia verso strada [...] venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino [...] e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. [...] Così, ora, [...] la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè». È prosa di Proust, ma potrebbe sembrare, solo che si apportassero alcune modifiche per trasporre il brano dalla Francia di fine Ottocento alla Brescia di metà Novecento, prosa di Ottaviano. Quale sarà stata – viene da chiedersi – la sua madeleine evocatrice? Quale dolce, intinto in quale bevanda, può aver innescato il suo processo memoriale, il recupero del tempo perduto della sua casa perduta?
Forse uno di quei dolci alla mandorla chiamati “brutti ma buoni” che suo padre gli offriva in un piccolo caffè dopo la messa? O forse, più “etnicamente”, un piatto di casoncelli in brodo mangiato a Natale? O dobbiamo invece pensare a una madeleine del tutto virtuale, simbolica, gustata non con il palato ma con il cuore sollecitato da qualche intensa emozione? Il rimando a Proust non è affatto casuale. Proustiana è l’ispirazione alla base dell’intera rivisitazione dei beati Anni Cinquanta a Brescia (ma anche a Jesolo e nella campagna di Caino).
Semi-proustiano il titolo del volume. E di aroma proustiano, consapevole o inconscio, profuma persino l’incipit, la prima riga di testo: «Da molto tempo non mi affaccio a una finestra come facevo allora». Una formula che si direbbe modellata sulla stessa struttura dell’incipit della Recherche: «Longtemps, je me suis couché de bonne heure», cioè: «Per molto tempo [a lungo, traduce Raboni] mi sono coricato di buonora». Oggi non ci affacciamo più alle nostre finestre, ai nostri balconi con quella tranquilla, vorace curiosità: ce lo vietano il traffico caotico, l’inquinamento atmosferico, la frenesia della gente per le Singolare coincidenza: la rilettura di queste Storie si è svolta in contemporanea con l’indagine di mia moglie, da me condivisa, sulle vicende del Decanato Vigentino negli anni Cinquanta, durante l’episcopato del cardinale Montini, l’illustre concittadino (o quasi) di Ottaviano che resse la diocesi ambrosiana dal 1954 fino all’elezione al Pontificato nel 1963.
Già a partire dal mio primo approccio a uno specimen del libro oggi pubblicato, nello scorso mese di maggio, mi colpì la straordinaria precisione (con terminologia fotografica, la “definizione”) dei ricordi di Ottaviano: nomi e cognomi di persone anche solo sfiorate, toponimi, minuti dettagli descrittivi e narrativi, testi di canzoni, sentenze e proverbi. In genere tutti questi elementi sono riportati con relativa sicurezza, e perdipiù corredati di parentesi o incisi con funzione di chiose esplicative. In diversi casi, tuttavia, quando la memoria dell’autore dubita della propria infallibilità, la reminiscenza è accompagnata da un cauto avverbio ipotetico: “probabilmente”, “forse”. Questo atteggiamento prudenziale ricorre soprattutto là dove le lacune dello sguardo, della percezione, della coscienza infantile vengono colmate da deduzioni, da ricostruzioni a posteriori che il narratore ha operato in età adulta. Si profila quindi una sorta di dialettica tra Alberto ragazzino e Ottaviano giornalista: il secondo viene in aiuto al primo, rivelandogli – ad esempio – i pregi storico-artistici di tanti ambienti allora frequentati con innocente noncuranza. Di fronte a una simile acribia “archeologica”, si affaccia un interrogativo: il giovanissimo Ottaviano teneva forse un diario?
Appuntava gli avvenimenti salienti della sua quotidianità? Quali sono, altrimenti, le fonti di questa Uno dei dati socio-economici che fin da subito balza agli occhi del lettore insediato nel XXI secolo è il contrasto tra l’umana “civiltà dei negozianti, dei bottegai” (qual era lo stesso padre del narratore, titolare di un negozio d’abbigliamento militare) e la quasi disumana “cultura del supermarket, del centro commerciale, del megastore, ecc.” che oggi l’ha soppiantata. Il contrasto, in altri termini, tra il “fare la spesa” passando di bottega in bottega, intrattenendo come clienti di riguardo gratificanti relazioni personali con gli esercenti, e l’anonimo “fare shopping” odierno. La scomparsa dei negozi tradizionali è segno di declino civile. Ed è giusto rammaricarsene, ma non farsene un cruccio. Bisogna cercare di riportare umanità, cortesia, reciproca attenzione anche nelle megalopoli commerciali. Riedificare una sorta di “umanesimo mercantile”.
Il fenomeno di questa mutazione genetica nel modo di fare acquisti è solo uno degli aspetti “generalizzanti” del libro di Ottaviano. Più volte il suo microcosmo bresciano diventa un binocolo attraverso il quale lo sguardo dell’autore si estende al macrocosmo circostante, ai coevi contesti storici, politici, economici e sociali. Rivivendo quell’epoca con la sensibilità del bambino o ragazzo di allora, mescolata all’esperienza, alla cognizione dell’uomo maturo, Ottaviano fa scattare interessanti flash sulla ricezione in ambito locale di avvenimenti di portata nazionale e internazionale: la contrapposizione tra DC e PCI con la loro accanita propaganda a colpi di comizi e manifesti, la guerra fredda, la sconfitta del Fronte Popolare nelle elezioni dell’aprile 1948, la guerra di Corea (1950-1953), la morte di Stalin (1953), la repressione della rivolta ungherese (1956).
Uno spaccato emblematico di società italiana negli anni della ricostruzione postbellica e dell’incipiente “miracolo economico” emerge da un’infinità di rievocazioni sorprendentemente puntuali e, per un quasi coetaneo dell’autore come lo sono io, estremamente coinvolgenti: il Festival di Sanremo ascoltato alla radio, l’avvento della televisione con il rito collettivo di “Lascia o raddoppia?”, la Mille Miglia, i giochi ruspanti, le prime letture di romanzi (Salgari über alles) e di fumetti, le liturgie scolastiche (il ceffone del maestro, pennini, matite, inchiostro, ecc.) e oratoriane, la passione per il cinema perlopiù d’importazione americana, la gastronomia “casereccia”, sempre frugale tranne che la domenica e in occasione delle grandi feste familiari, con variazioni di picnic en plein air durante gite fuori porta a bordo di un’utilitaria Fiat.
La nota su cui giustamente, meritoriamente insistono i brani riflessivi stampati in corsivo è quella dell’ordinato regime a cui era improntata la vita della famiglia media italiana: il rispetto delle gerarchie, dei ruoli e delle regole, il senso del dovere e del sacrificio, la considerazione riservata ai ceti inferiori (rappresentati per esempio dalla domestica, la Lina di Collebeato), le virtù della parsimonia, dell’onestà e dell’obbedienza inculcate nei figli. Insomma, disciplina e armonia interpersonali, che – insieme all’istruzione scolastica e all’educazione religiosa (nella fattispecie, impartita dai padri oratoriani della Pace, oltre che da padre Giulio Bevilacqua, ma anche dalla madre: significativo il rosario familiare per la ricorrenza dei Morti) – garantivano equilibrio e, compatibilmente con le inevitabili traversie dell’esistenza, un fondo di serenità.
Alla concezione “totalizzante” del lavoro professata dal padre fa riscontro, da parte della madre, un’interpretazione dei vari impegni più “flessibile”, per certi versi anticipatrice di quella che è l’ardua, faticosa conciliazione tra esigenze familiari e incombenze lavorative cui oggi è chiamata la Un ulteriore rimando alla Ricerca proustiana si potrebbe cogliere nella descrizione prima dei preparativi per la villeggiatura estiva, poi della partenza e del viaggio in treno alla volta del Lido di Jesolo: non mancano, qui, le analogie con l’emozionante trasferimento ferroviario del Narratore proustiano, in compagnia della Nonna, da Parigi alla costa normanna di Balbec.
Ovviamente abbondano anche le analogie con le mie vacanze infantili e adolescenziali, di poco spostate più avanti nel tempo, a fine Anni Cinquanta-inizio Sessanta, sulla Riviera ligure: la spedizione dei bauli con tutto l’armamentario balneare, la purga del primo giorno, le avventure di spiaggia, l’inserimento in un gruppo giovanile di villeggianti, l’epopea dei dancing, delle orchestrine e delle coppie danzanti golosamente sbirciate dall’esterno. E, soprattutto, le prime “cotte”, poco meno che platoniche, per le attraenti ma fin troppo pudibonde ragazzine, italiane o straniere, di quei tempi castigati, con lo strascico di corrispondenze postali destinate presto ad Il capitolo conclusivo dedicato alle vacanze estive e alla loro spensieratezza innesca un pensoso corollario sul radicale mutamento del paesaggio, sia veneto (rivierasco) sia lombardo (hinterland bresciano). Da un lato la disordinata, massiccia speculazione edilizia che ha trasformato il Lido di Jesolo in una sorta di Miami dell’Adriatico, con uno skyline irto di grattacieli. Dall’altro, la deindustrializzazione della Valle del Garza, teatro di una vacanza campestre nel 1950, che ha provocato un degrado ambientale in seguito ai bruschi smantellamenti delle cartiere e degli impianti siderurgici in funzione nel secondo Novecento. Senza che sia possibile tornare allo scenario bucolico dell’immediato dopoguerra, devastato dall’impetuosa industrializzazione che oggi è già defunta. Insomma, l’ombra dell’interminabile crisi economica, della mancata riconversione, dell’irraggiungibile ripresa, della dilagante disoccupazione finisce con lo stendersi anche sull’immagine idilliaca dipinta in precedenza da Ottaviano, archeologo di una Brescia che fu – e che Nella conclusione, il memorialista si astiene dall’esplicitare le motivazioni che hanno generato queste sue scorribande nel cuore di una scomparsa Brixia felix. Probabilmente (prendiamo da lui in prestito l’avverbio congetturale) ha inteso lasciare ai lettori il compito di colmare il suo riservato silenzio con le loro supposizioni. Del resto, non è troppo difficile orientarsi nel suo “retrobottega”.
E allora proviamo a ipotizzare. Questo libro, scritto con la freschezza comunicativa di un ragazzo ma anche con la sapienza espressiva di un adulto, con la professionalità di un colto giornalista, è stato concepito a beneficio di svariati destinatari:
1) l’autore stesso, per una obiettiva verifica sulla coerenza tra il suo attuale stile di vita e l’“educazione sentimentale” ricevuta durante l’infanzia e l’adolescenza;
2) i suoi coetanei, a cominciare dalla moglie, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, per consentire loro di gustare in sua compagnia questa serena e solo lievemente nostalgica reimmersione nel “tempo perduto”: un tempo da ritrovare, almeno in parte, tutti insieme;
3) quei genitori che in qualche modo si riconoscono nel modello dei coniugi Ottaviano, fatti qui rivivere con affetto e gratitudine ma senza incensazioni celebrative, con atteggiamento simile a quello che indusse Ferdinando Camon a commemorare sua madre (Un altare per la madre) e Raffaele Crovi a testimoniare sulla figura di suo padre (Le parole del padre);
4) le nuove generazioni d’oggi (se, come tutti ci auguriamo, il libro avrà anche dei lettori giovani), perché possano apprezzare ideali e valori di quell’Italia risorta dalle macerie della guerra e si sentano spronati a trapiantarli nel contesto storico attuale e futuro, con tutti i dovuti aggiornamenti ma non senza un fondamentale rispetto degli immutabili princìpi morali, in primis quelli su cui si regge l’istituto familiare;
5) la popolazione di Brescia, l’amata città dove Alberto Ottaviano è nato e cresciuto, ha lavorato e continua a svolgere un’attività intellettuale; la città alla quale, con Storie di una casa perduta, ha innalzato un piccolo monumento: probabilmente non perenne come quello costituito dall’opera poetica di Orazio (exegi monumentum aere perennius), ma sicuramente duraturo. Destinato, proustianamente, a sopravvivere ancora per molto tempo.
Marco Beck