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Quando nel 2010, nel pieno della maturità di un’esperienza artistica trentennale, tra le tele con cui coabita nel suo appartamento di Monza, Luca Melzi inizia la stesura di quelli che ama definire «capricci d’inchiostro», ha già ben chiara la spinta sottesa al suo creare: la necessità di raggiungere l’essenza, intesa come primordiale espressione dell’intimo. L’arte è il recupero di un sentire, sia esso significato per verba o per imagines. La suggestione che anima La calla (petali di parole), seconda raccolta dell’artista monzese, è sussurrata dal cromatismo che è sale di ogni ricordo. La sua poesia intimista, sbocciata in un abbandono ora ascetico, ora mistico, vive di un sensismo volto alla ricerca dell’«eterna bellezza», nascosta tra gli spaccati del quotidiano.


Giorgio Anelli è un poeta che sembra sbalzare fuori da ogni secolo. Nasce a Busto Arsizio, nel 1974.

La sua vita apparentemente con perfidia si colloca di traverso alla scrittura, in realtà per nutrirla. Conosce la contrizione, la vocazione alla solitudine. La disperazione voluttuosa, il male della coercizione, i viaggi cattivi della psiche, forse l’internamento. Quanto basta per rendere Giorgio Anelli un fuoriuscito. O un poeta idealmente collocabile nel ganglio del maledettismo, in una forma nuova tuttavia, la brutalità del destino da trasformare in una biografia letteraria, potrebbe essere il senso di una vita intera. La vita di questo poeta visionario, delicatissimo, prossimo a crollare su eccelsi bastioni di idealità e purismo.

Per questa ragione Giorgio Anelli è coerentemente Imperdonabile. Le strade impervie della sua vita assumono un valore superiore persino ai suoi stessi versi ed è per una tale ragione che i suoi stessi versi ignorano le obiezioni degli accademici casomai, critica è competenza di cui non mi importa molto in questo spazio.

«Mi chiedete, quello che resta.
Davvero, non lo so.
Forse la tana dei vermi
nel terreno grasso e umido.
Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.
I giorni mai uguali l’uno all’altro
i minuti di sofferenza sempre uguali [...]».
 
(Quello che resta, p. 47)
 
 
Se il panorama della poesia italiana contemporanea sembra languire, da un lato per l’annosa questione dell’elitarismo dei poeti, dall’altro, di contro, per un effimero successo di poetanti da ipermercato, la cui qualità di scrittura è di una mellifluità assiomatica ma che ha incontrato il favore dell’attuale mediocritas, vi sono (esistono, credetemi!) delle perle preziose, neanche tanto celate, che immettono linfa vitale nelle vene liriche dell’oggi. Questo, è bene sottolinearlo, soprattutto a opera di piccole e medie case editrici, dove la poesia ha trovato dimora ormai da tempo.
È il caso di E sia, opera di Grazia Procino, Giuliano Ladolfi Editore, 2019, una notevole raccolta che corrobora, attraverso il suo elegante classicismo, la nostra tesi, secondo la quale la buona poesia è tutt’altro che spirata ma, a chi sa dove cercare, dona ancora momenti di eccelsa beatitudine letteraria.
 

Sono appena riemersa dall’incanto delle magie d’amore che la scrittrice e docente catanese Gabriella Vergari ha racchiuso nei diciotto racconti che compongono questa sua nuova opera e desidero parlarvene.

Il primo elemento che colpisce chi decide di farsi ammaliare dalle sue storie è la straordinaria fantasia dell’autrice, inesauribile come l’acqua di una fontana e variegata come i colori dell’arcobaleno; in ogni racconto c’è sempre un dettaglio iniziale che le dà l’input per poi allargarsi, come i cerchi in uno stagno, narrando, con la tecnica del flashback e con un pizzico di giallo, la storia pregressa del/la protagonista.

La seconda ragione che vi farà amare questa raccolta di racconti è, come ho già sottolineato nelle mie precedenti recensioni, lo splendido stile narrativo dell’autrice, denso, mai scontato, ricco, con “inserti” linguistici presi “in prestito” dal francese, dall’inglese, dal greco e dal latino, sempre intriso di leggera ironia, profondo pathos e congenita sicilianità (che condivide con la sottoscritta…).


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