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È stato presentato il 9 settembre 2021 alla Società delle Belle Arti “Casa di Dante”, nell’ambito delle iniziative del Settembre Dantesco, il libro di poesia “Promethéus. Il dono del fuoco”, autore Roberto Mosi, editore Giuliano Ladolfi. L’incontro si è tenuto in presenza ed è stato anche diffuso online all’indirizzo Facebook della Società (indirizzo: https://www.facebook.com/watch/live/?v=1043494529727806&ref=notif&notif_id=1631199586507689&notif_t=live_video_explicit ).

Hanno commentato il libro Silvia Ranzi e Nicoletta Manetti; Virginia Bazzechi G. ha inviato un contributo del quale è stata data lettura. L’autore ha ricordato che il mito di Prometeo è uno dei miti più suggestivi, riguarda il furto del fuoco come dono per la salvezza degli uomini: partendo dalle parole di Eschilo nella tragedia del Prometeo incatenato, ha ricordato che il dono può essere interpretato come il dono agli uomini dell’Arte (i segni intrecciati) e della Scienza (il calcolo).

Nell’opera presentata, partendo da questi presupposti, si immagina un percorso articolato che si percorre con la cadenza che suggerisce il compositore russo Musorgshij nella composizione “Quadri di un’esposizione”, riferita alla visita della Galleria di Mosca dove sono esposti i quadri dell’amico pittore Victor Hartmann, con passaggi da una sala all’altra segnati dai noti motivi delle promenades. Nel libro “Promethéus. Il dono del fuoco”, il salone d’arte è rappresentato dalle nostre città e dai paesaggi urbani che offrono, oggi, le strade, le case, i muri dipinti, in maniera sempre più estesa, dagli artisti di strada.

 


Recensione di Mariella Bettarini

Dal Blog: poesia3002
27/06/2021

Roberto carissimo,

eccomi finalmente a te, dopo l’emozionante lettura del tuo “Promethéus. Il dono del fuoco”. Un libro davvero straordinario, di cui ho apprezzato pagina dopo pagina, nelle sue varie sezioni e relativi Movimenti e Tempi.

Come fare a “sintetizzare” questa così intensa tua scrittura, densa di Mito greco. Scienza, Arti Visive, e così via? Ha perfettamente ragione Giuliano Ladolfi quando parla di “una ricchezza di ispirazione, un vasto bagaglio culturale e una opportuna gamma di strumenti poetici”.

Non si poteva dire meglio di così per sintetizzare questo tuo lavoro.

Amico carissimo, i miei più vivi complimenti per questo tuo “dono del fuoco” e non solo: Dono di poesia, di scienza, di dipinti murali, di speranza, e così via.

A presto, ...


Que de textes graves, mélancoliques, tristes et tragiques ! De l'Est évoqué par les « barbelés » de l'histoire, les « bouleaux » de Wajda et les références à la poétesse russe Marina Tsvetaiëva, Emorine nous conduit au plus intime de la violence subie. Sans s'appesantir, il nous donne à lire les séparations, les blessures, les violences de la guerre, à l'Est et ailleurs.

Dans des poèmes assez brefs, en deux sections « Détours » et « Insomnies », le poète grave sa poésie dans le terreau des victimes et les souvenirs âpres.

On sent une proximité avec ces noms qui courent les pages, autant de deuils, on le pressent : Nora, Jacques, d'autres anonymes.


di Davide Morelli

Di sicuro, oggi come oggi, nella poesia contemporanea italiana “le mappe non sono più possibili”, come ha scritto Giulio Ferroni. Inoltre forse oggi è improbabile il rapporto tra impegno e poesia, tra religione e poesia. Tuttavia si può affermare che è saldo il legame tra filosofia e poesia.

Sanguineti sosteneva comunque che la poesia fosse uno sguardo vergine sul mondo. Quindi sarebbe l’animo umano a fare poetico il mondo. Potremmo però anche pensare che la poesia si trovi sia nella mente che nella realtà, oppure che nasca da una interazione tra le due. Se consideriamo la poesia come mimesi allora il poetico sta nel mondo. Se consideriamo la poesia come rivelazione allora il merito sta tutto nell’artista o in Dio. Se consideriamo la poesia come trasfigurazione o come insieme di “corrispondenze” (come le intendeva Baudelaire, che creavano perciò “una foresta di simboli) allora il poetico sta sia nel mondo che nell’io.


Cristina Campo è figura di culto, misconosciuta ed eletta, nel nostro Novecento. Viene ciclicamente riscoperta e rilanciata, ma in definitiva la si consegna a una piccola nicchia, per quanto di prestigio. Ma è questa la dimensione che la stessa Vittoria Guerrini (così, infatti, all’anagrafe) aveva predisposto, lasciandoci solo un numero discreto di testi poetici o di saggi – lei che amava frequentare la letteratura in modo diretto, intimo, in particolare tramite la traduzione o lo scambio di lettere con molti interlocutori. Sentiva anzi la necessità di proteggere questo recinto sacro con rigore estremo, e quando proprio doveva infrangerlo ricorreva a diversi pseudonimi, per preservare comunque la solitudine e la concentrazione per lei fondamentali.

Avrebbe fatto di tutto per essere incluso anche Giorgio Anelli, tra gli interlocutori di Cristina. E, in effetti, ha provato a raggirare il tempo e a dialogare con lei, in particolare attraverso un esile e intenso libricino edito da Ladolfi editore: Cristina Campo. Catabasi nel destino.

Anelli non è un critico né pretende di maneggiare le armi della filologia. Anelli dialoga con gli autori prediletti come un fedele d’amore, vive dedito alla frequentazione dei suoi fantasmi letterari in modo ingenuo e assoluto, sfrontato e innamorato.

Alla cristallina bellezza di Cristina, che già tanti ammaliò in vita, sarebbe piaciuta questa dichiarazione d’amore fuori tempo.

Chi è infine il poeta? Colui che ha stile. E lo stile ha la perfezione di un fiore; come dire che questo fratello orfico che è il poeta, possiede uno sguardo irraggiungibile. Lo sguardo di chi sa penetrare la bellezza di un astro cadente, o osservare senza vergogna e ininterrottamente nuvole o laghi, in tutta la loro schiacciante presenza nell’arco indefinito del tempo.

Chi può dire di aver visto per davvero il volto di un poeta? Esso stesso è invisibile. È quello di un fantasma, talmente imperdonabile, come ogni riga del suo libro più intimo.

(Giorgio Anelli, Cristina Campo. Catabasi nel destino, Ladolfi editore 2021, p. 54

 

https://www.andreatemporelli.com/2021/04/28/cristina-campo/


LA PAROLA AZZURRO DEFINISCE LO STUPORE

Se e quando / solo le stelle lo sanno

 

Titiwai. Il termine maori che titola la raccolta poetica è nome di natura e meraviglia, metafora del vivere e del vivente, incantevole poesia.

Come quelle larve che dalle grotte del distretto di Waitomo “emettono dei bagliori sulle scale degli azzurri”, trasfigurando la pietra nuda in volta astrale, nero arco puntellato di luminose gemme incastonate, le poesie di Sandro Angelucci sono azzurra luce emersa dal silenzio – “voce braccata / di un silenzio / che si rivela mentre si nasconde” –, balenio stellare che supera il buio e la parola per sprofondare nella gioia e farsi mondo, colorando in viaggio arcobaleni. Ed è nella rifrazione sommessa e grandiosa della luce che il suono, il senso definisce il luogo, riordina il vero, lo spazio della quiete piccola, si carica di stupore, illumina speranza, trasmette sovrabbondanza. Da larva-cosa, minimo infinitesimo nel senza confini – “il poco (tanto) che abbiamo” –, il senso monta identità, consapevolezza il lampo, ampiezza lo sfavillio: l’uomo, il poeta, lungi dal rumore e dal commercio, giunge a sé nello scavo del proprio cuore, comunica da lì la lingua naturale, il senso il bene universale.

Fare il vuoto, poeta / questo ti chiede / quando – senza saperlo – / ne avverti la presenza. / Ti chiede di eclissarti / di toglierti di torno / di non essere invadente / con il tuo io / che si vergogna ad essere se stesso. / E fa il gradasso. / E non perde occasione / di reputare vero / ciò che al contrario è falso. / Ti chiede libertà. / Lo spazio del silenzio / dove tutto parla, / tutto si ascolta. / E non si vive a vanvera”.

Titiwai. Letteralmente, in lingua polinesiana “proiettato sull’acqua”.


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